Quando abbiamo deciso che la cosa migliore, il massimo della nostra vita, fosse far sapere a tutti i più privati fatti nostri?
I nostri telefoni sono pieni di video di bambini che imparano a dire le parolacce, di gente che pubblica le foto del proprio polso rotto, di personaggi che annunciano fieri i loro successi o insuccessi amorosi. E noi sempre lì a pensare “ma perché? perché ce lo stai raccontando?”
Tralasciamo per un momento chi del proprio stile di vita costantemente condiviso ha fatto un business, mettendo “in piazza” qualsiasi frammento della propria giornata. Ma gli altri? Gli altri non solo non ci guadagnano, ma spesso ci perdono. Quantomeno in dignità.
E la cosa più ridicola, per così dire, è che tutto questo è cominciato quando si è sentito parlare per la prima volta di privacy. Il diritto alla privacy.
Nel momento in cui la gente ha cominciato a scrivere “ci spiano”, “sanno tutto di noi”, “ci osservano”… E però lo scriveva in un social network dove aveva inserito il proprio nome e cognome, l’indirizzo, le foto con i figli, la situazione sentimentale, i posti che ama visitare, piatti e bevande preferite, gusti musicali e così via.
E se per le persone tutto questo era, ed è, già un disastro… un giorno sono arrivate le aziende.
Sbarcate sui social come i conquistadores nell’America latina, pronte ad accaparrarsi l’ultimo consumatore a qualunque costo, senza accorgersene sono entrate in casa di qualcun altro, e hanno accettato il rischio che se quel qualcuno avesse voluto chiudere tutto, il loro business sarebbe rimasto intrappolato lì, per sempre.
Ma non è tutto business quello che luccica (o che arriva da un’azienda, ovviamente): su un campo di battaglia in cui combattere a colpi di pubblicità e recensioni, tutti si sembrano essersi dimenticati della reputazione… Ma quello che dieci anni fa, all’inizio di queste scaramucce, perché di scaramucce si tratta, non si sapeva, era che in questa battaglia, purtroppo, non vince nessuno.
Uno dei ritornelli che dovrebbe accompagnare chiunque scriva qualcosa in rete, è che di ciò che viene condiviso, in un modo o nell’altro, rimane traccia. Sempre. E al di là dell’ironia con cui possiamo scegliere di affrontare il tema, dato che fasciarsi la testa dopo un decennio di scorribande facebookiane non servirà a molto, ci teniamo a ricordare come la reputazione di un’azienda sia il suo primo biglietto da visita.
Non prenoteremmo mai un tavolo in quel ristorante in cui un amico ci ha detto di aver trovato una mosca nella zuppa. Perché dovremmo affidarci a quella società che continua a bombardare di e-mail i propri ex-clienti o, peggio, che ha ceduto i numeri di telefono presenti nei suoi database ai più disparati call center per poche centinaia di euro?
È su questi aspetti che si declina il concetto di responsabilità sociale di un’azienda, nel modo in cui si pone verso la società, come ciò può contribuire alla vita socio-economica della comunità e dei suoi stessi clienti, e come ciò pervada le sue politiche e si esprima attraverso i suoi prodotti e servizi.
Le aziende innovative per godere di una “reputazione digitale” positiva da un lato, e soddisfare gli obiettivi concreti d’impresa e rispettando i più elevati standard di compliance dall’altro, stanno ripensando i propri processi, integrando una visione “responsible by design” in tutte le loro attività.
Solo così facendo la responsabilità (sociale), oggi pilastro dei più aggiornati standard di sostenibilità in cui la privacy è ormai componente attiva, potrà far parte del biglietto da visita delle aziende “responsible by design”.
Un nostro contributo sul tema, per creare consapevolezza approfondire il tema nelle sue più diverse declinazioni, è l’incontro organizzato il 26 gennaio, il Bicocca Privacy Day 2023.
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