Per una qualsiasi azienda il proprio modo di essere sul mercato è condizionato da una propria identità digitale che deriva dalle modalità con cui vengono trattate e valorizzate le informazioni generate dai dati.
Questi ultimi costituiscono di fatto l’elemento base di ogni dialettica economica, sociale e d’impresa, all’interno e all’esterno del perimetro fisico in cui hanno origine le singole attività, individuali e collettive.
L’erogazione di un qualsiasi servizio implica la gestione di un numero crescente di flussi di informazioni. Attraverso reti e infrastrutture data center – interconnesse a livello globale e appartenenti a “internet companies” che hanno nel tempo arbitrariamente imposto proprie regole di comportamento – viaggiano i dati che sono alla base di transazioni e interazioni commerciali ed economiche sempre più complesse e articolate.
Uno scenario che per essere interpretato, valorizzato e gestito, richiede, da parte di tutti coloro che sono coinvolti in prima persona nella gestione del ciclo di vita del dato, la disponibilità ad acquisire conoscenze e competenze del tutto diverse dal passato. Lo sviluppo della propria identità digitale è infatti intimamente legato alla comprensione delle nuove dinamiche di mercato e presuppone, se vissuto in modo consapevole, un cambiamento culturale.
Solo se si comprendono i meccanismi che regolano il nuovo modo di fare impresa e solo se si è disposti a riconoscere i diritti e doveri cui ogni singola entità digitale è tenuta ad esigere e rispettare, si potrà agire con cognizione di causa.
Acquisire questa consapevolezza è il punto di partenza per diventare parte attiva del processo di trasformazione digitale, contribuendo a definire, ciascuno con le proprie competenze e capacità, un modello più sostenibile.
Un processo di cambiamento che presuppone una responsabilità e un uso etico dei dati e che costituisce, al tempo stesso, il fondamento pragmatico per la definizione di policy di cybersecurity, privacy, diritti digitali e sicurezza industriale.
Questo dovrebbe essere il principio di tutto.
Ma sono poche le aziende che si stanno muovendo in questa direzione o quanto meno che abbiano già definito una visione “digital responsibility compliant”.
Si tende ad acquisire un’identità digitale che il più delle volte alimenta un volume di dati sempre più grande senza avere la benché minima consapevolezza di come questi possano o debbano essere gestiti, di quali sono i rischi a cui ci si espone, di quali possono essere gli effetti che possono derivare da un utilizzo non responsabile della materia prima sulla quale si innescano tutte le nostre relazioni digitali.
Siamo in presenza di un mercato turbo-digitale, che tutto trasforma, senza che vi siano sufficienti regole per arbitrare la partita economica del nuovo secolo. Un’enorme quantità di dati – che interessano persone e aziende, individui e organizzazioni – viene convogliata in un grande contenitore tuttora privo di enzimi che possano preservarne l’integrità.
Sono queste le riflessioni da cui è nato l’impegno di Red Open e la sua missione, che appare oggi più attuale che mai: aiutare le aziende a diventare parti attive e consapevoli del processo di trasformazione digitale in un mercato in rapida evoluzione con strumenti e metodologie che favoriscano la creazione di ecosistemi aperti, basati su logiche di sostenibilità e responsabilità d’impresa.
Il fine ultimo?
La germinazione di una dimensione tecnologica, etica, giuridica ed economica, allineata in tutte le sue componenti, coerente con le sfide di un’economia digitale.
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